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Riflettiamo con Orlando Franceschelli sulla morte di Piergiorgio Welby

Welby

Il suo diritto di scegliere, il nostro dovere di rispettarlo
Da: il Riformista del 22 dicembre 2006.

 


Orlando Franceschelli. «Io amo la vita». È con queste parole semplicissime e toccanti che Piergiorgio Welby ha sempre accompagnato la sua decisione di porre fine alla sua lunga sofferenza. Amore per la vita, libertà di poterne disporre, pene divenute non più tollerabili: dimenticare uno solo di questi tre punti, significa precludersi ogni comprensione rispettosa, solidale e costruttiva della vicenda umana e pubblica di Piergiorgio. Qualcuno che si eserciterà in una simile dimenticanza, certo non mancherà. Ma con la sua vita e la sua morte, Welby ci ha offerto una testimonianza che veramente non suscita soltanto umana partecipazione. Richiede di più: ci impegna a rimuovere le intolleranze ideologico-religiose e le strumentalizzazioni politiche che ancora impediscono di affrontare con la necessaria laicità il punto decisivo e ormai ineludibile di tutto il confronto su questi temi eticamente sensibili: il riconoscimento del diritto all’uscita volontaria dalla vita. Quello che Piergiorgio si è ripreso. Pur amando la vita. Pur essendo amato con dedizione estrema. Quella con cui la moglie Mina l’ha saputo accompagnare per anni. E fino all’ultimo addio.
Per chi è credente, la vita è un dono del Creatore. È qualcosa di sacro, che non ci appartiene e di cui non si può disporre. Al punto che l’uscita volontaria dalla vita è la ribellione estrema all’ordine della stessa creazione divina. Giuda, diceva già Agostino, nel momento in cui si è tolto la vita, ha peccato contro Dio perfino più di quando ha tradito Gesù. Da qui anche da parte della chiesa cattolica la condanna dei suicidi. Inappellabile al punto da negare loro perfino funerale e sepoltura religiosi. Ma, come riconoscono non pochi ed eminenti teologi, solo un estremo furore integralista potrebbe indurre a non riconoscere che i propri convincimenti etico-teologici debbano valere anche per quei cittadini che alla vita e alla morte guardano al di fuori di ogni logica religiosa o di sacralità. A cosa pensano dunque i nostri cattolici anche impegnati in politica: a far passare per una colpa morale la mancanza di fede religiosa? Oppure a provare effettivamente a dialogare non con l’arbitrio relativistico, ma con le umanissime e solide ragioni di altri protagonisti della sfera pubblica, che si sentono responsabilmente titolari anche della libertà di morire, del diritto di poter ritenere ormai non più sopportabile, non più vita, la condizione di sofferenza o di umiliazione nella quali si trovano?

La predisposizione degli opportuni strumenti giuridici che rendano finalmente praticabile sia il testamento biologico, sia il potersi sottrarre ad ogni forma di accanimento terapeutico, è auspicata da più parti. E nessuno ovviamente propone che venga riconosciuto a qualcuno il diritto a sopprimerne con una morte dolce e dignitosa la vita di un altro.
Ma proprio l’opposizione a fini riforme di eutanasia e ad ogni tipo di accanimento terapeutico, non può portare ancora una volta ad eludere la questione decisiva sollevata da Welby: il diritto all’uscita volontaria dalla vita anche da parte di un malato impossibilitato praticamente a metterla in atto da solo. E la cui condizione di sofferenza, come tutti sappiamo, può essere ormai prolungata fino all’inverosimile dalla tecnica medica. E vero piuttosto il contrario: solo un confronto laico e costruttivo sulla questione decisiva della libertà di morire, può far fare passi avanti significativi anche a livello politico-parlamentare.
Tanto più se non si dimentica l’altra, grande lezione che Piergiorgio e chi gli è stato vicino hanno saputo darci: l’amore dignitoso e struggente per la vita che ha sempre accompagnato la sua decisione di porre fine ad una condizione che ormai non riusciva più ad apparirgli come una vita degna di essere vissuta. L’operosa sollecitudine per chi soffre è un dovere al quale tutti dovremmo essere sensibili. Ed a cui è sempre bene essere richiamati. Ma come non riconoscere che l’amore autentico è anche e forse soprattutto amore e rispetto della libertà altrui ed ancora di più del suo diritto a giudicare il senso e la sop-portabilità di una sofferenza sua e di nessun altro. Non contrapponiamo più libertà e amore. Sia della vita, sia degli altri. Farlo vorrebbe dire veramente mancare di ogni umana e rispettosa comprensione per la decisione di Piergiorgio Welby e di chi gli è stato accanto. Comprensione, appunto, non umana misericordia: capacità di confrontarsi veramente con quei sentimenti e quei pensieri che in ognuno di noi suscita un atto di libertà così estremo e autentico.

 

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