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Speranza della fede e saggezza umana

Da: "Il Riformista"

 

La speranza cristiana - ha ricordato Benedetto XVI nella sua ultima enciclica Spe salvi - non rientra tra quelle «più piccole o più grandi che l'uomo ha nel succedersi dei giorni». Queste sono speranze del tutto terrene. Individuali o sociali, come quelle coltivate dalle moderne filosofie del progresso, desiderose di costruire sulla terra il regno di Dio. Il Papa rivendica «una speranza che vada oltre». «Qualcosa di infinito» e che «sarà sempre più di ciò che (l'uomo) possa mai raggiungere» nella sua vita o nella storia. La speranza di cui è «evidente che l'uomo ha bisogno», l'unica «che può bastargli», è la redenzione-salvezza annunciata da Dio a chi ha fede nella Sua promessa: «Speranza è l'equivalente di "fede"», come la teologia cristiana ha sempre saputo da Paolo in poi.
Una simile esortazione a sperare nel regno di Dio e nel giudizio finale, papa Ratzinger la rivolge, da teologo e da pastore, a quanti hanno fede. E solo grazie ad essa si sentono «salvati nella speranza». Esortazione del tutto comprensibile, anche per i non credenti che laicamente guardano con rispetto e interesse a ogni esperienza di fede impegnata a testimoniare i doni della grazia. E a patirne le prove. A cominciare proprio dallo scandalo della biblica speranza che - «contro ogni speranza», riconosceva già Abramo - sopporta «con perseveranza» il penoso conflitto tra ciò che può essere visto e «ciò che si spera» (Paolo, Rm 8,24). Ma Benedetto XVI non si limita a confermare la fede di chi crede. Anche da questa enciclica emergono implicazioni filosofiche ed etico-politiche che sembrano voler come mortificare coloro che, ripete il papa con Paolo, sono «senza speranza e senza Dio nel mondo». Una diminuzione dell'uomo a tratti assai poco profetica. E certo ben poco capace di autentico dialogo.
Papa Ratzinger richiama tutte le facoltà e dimensioni che arricchiscono la vita umana ed il cui esercizio ha come innervato anche il confronto che la modernità ha saputo condurre con la tradizione platonico-cristiana dal cui seno è sorta. E alla ragione, alla libertà, alla scienza non vengono certo risparmiati omaggi e riconoscimenti.
Il tutto però ad una condizione. Inesorabilmente ribadita persino a proposito dell'umanissima «esperienza di un grande amore»: tutte queste attività dell'uomo possono diventare valori e ricchezza vera solo a patto di trascendere «l'ambito puramente intramondano». La ragione? Quando «domina veramente?», quando «diventa una ragione veramente umana?». La risposta non è una sorpresa: «Per arrivare ad essere totalmente se stessa la ragione ha bisogno della fede». E un'analoga apertura «alle forze salvifiche della fede» risulta indispensabile anche alla libertà e alla scienza. Impresa quest'ultima che «può contribuire molto all'umanizzazione del mondo e dell'umanità». Ma di nuovo: non «redime l'uomo».
Come se la scienza dovesse svolgere i compiti di una religione, invece di contribuire con le sue conoscenze a farci raggiungere un'idea sempre più adeguata di cosa di fatto siano il mondo naturale e noi che in esso e di esso viviamo. Contributo tutt'altro che totalizzante, come vorrebbe lo scientismo. Ma neppure marginale o trascurabile. Come riconosce tutta la teologia impegnata in un confronto adulto e costruttivo con la scienza e la coscienza moderne.
Ancora una volta, invece, la teologia ratzingeriana sembra riuscire a definire se stessa solo a patto di ridurre la coscienza moderna emancipata dalla fede ad un cumulo di macerie. A quella «fine (perversa) di tutte le cose» che il papa prende da Kant, trascurando di richiamare il contesto apocalittico dell'Anticristo in cui Kant la evocava. Dopo aver scritto non a caso: «A meno che non si preferisca rinunciare del tutto al proprio fine ultimo».
Ecco: c'è una modernità che ha saputo prendere congedo - e ben più dello stesso Kant - da ogni scenario apocalittico ed escatologico. Di più: da ogni teologia, filosofia della storia -hegeliana, positivista, marxista - o ideologia del progresso che promette, impone o rimpiange un compimento finale delle vicende umane. È di questo illuminismo moderno che ha saputo emanciparsi criticamente da fini ultimi e salvifici - trascendenti o secolari - che ci sentiamo eredi. Impegnati a coltivare le umanissime e terrene virtù della scienza, dell'indagine filosofica e della «social catena» (Leopardi). Le uniche che, senza renderci sospetti a noi stessi, ci possono riconciliare con la contingenza cosmica e storica del nostro destino di uomini e di cittadini. Nec spe nec metu : senza né speranze e né timori - tanto più se sovrumani - come già ammoniva la sapienza classica.
A questa umana e solidale saggezza, laica e mai ideologicamente ostile alla testimonianza della fede, anche nella Spe salvi viene dedicata ben poca e costruttiva attenzione. Mentre non si esita a rivendicare come necessaria «un'autocritica dell'età moderna in dialogo col cristianesimo e con la sua concezione della speranza». Ogni invito ad un dialogo alto tra cristianesimo e modernità è sempre bene accetto. Purché non si pensi che i propri interlocutori siano disperati e nichilisti. Magari pronti a trasformare in devozione sospetta questo presunto - o auspicato? - naufragio della coscienza moderna e delle nostre società plurali.
Forse di un dialogo non con le macerie della storia, ma con la possibile, umana saggezza dei mortali hanno bisogno anche i credenti e la chiesa. Come profeticamente aveva annunciato anche il Vaticano Secondo. Gli integralismi religiosi - come i loro surrogati secolari: le ideologie - impediscono sempre di riconoscere e coltivare i frutti più belli, sobri e liberatori dell'umana ricerca: gli approdi più apprezzabili che gli uomini sono impegnati a guadagnare. Un impegno critico e civilmente fertile che ci piacerebbe veder preso nella dovuta considerazione anche da una teologia finalmente - o nuovamente - pensosa. Se non delle sovrumane verità e speranze della fede, almeno della ragionevole ed umana saggezza degli altri.

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